martedì 26 maggio 2020

Francesco Landucci_La musica degli antichi

Intervista a Francesco Landucci, musicista polistrumentista, compositore e produttore musicale, fonico dello studio di registrazione Poderino Recording Studio e fondatore del progetto Archeologia Sonora Sperimentale. Da anni si interessa alla ricerca in campo musicale della musica antica.

1. Come sei entrato a contatto con questa disciplina e quando?
Nei primi del 2000, grazie ad un amico appassionato di archeologia, iniziai ad interessarmi al mondo sonoro antico, e a cercare di costruirmi i primi strumenti musicali per suonarli. Avevo fatto qualche anno prima un percorso di studio della musica indiana, in particolare del Sitar a cui ero arrivato dopo anni di post-rock, metal stoner ecc, approdando infine all'elettronica e all'etnica che divennero per me un connubio di ispirazione con cui produssi una serie di dischi per varie discografiche, tra cui Rai Trade, fondando il progetto musicale dal nome Tilak. In contemporanea intanto avevo iniziato questa ricerca archeo-musicale che mi aveva fatto rivolgere l'attenzione anche in casa, sul nostro territorio, rientrando così da lontani lidi musicali, per scoprire gli strumenti degli Etruschi, dei Romani, e approfondendo inoltre anche gli strumenti di altre culture antiche, come ad esempio la Greca o l'Egizia...insomma la world music del mondo antico. Per quanto riguarda gli Etruschi, qui in Toscana vi sono moltissimi reperti con rappresentazioni musicali ed anche vari importanti reperti, che ho avuto il piacere di poter visionare, studiare ed in alcuni casi anche provare a suonare.

2. Secondo te la tradizione popolare è in grado di preservare gli stili musicali nel corso del tempo? Ti è mai capitato di trovare similitudini musicali fra canti folkloristici più recenti e la musica antica?
Si, credo che la tradizione popolare può in alcuni casi mantenere qualche connotato musicale nel corso del tempo, sicuramente non identico ma mutato nel tempo, a livello musicale e organologico strumentale. Della musica del mondo antico si è preservato praticamente veramente poco. Alcuni papiri frammentari molto brevi di musica greca, il famoso epitaffio di Sicilo, documento musicale dell'antica Grecia, costituito da 12 righe di testo, di cui 6 accompagnate da notazione alfabetica greca di una melodia musicale frigia in otto misure, scolpite su una stele funeraria di marmo, datato tra il II sec. a.C. e il I d.C. Oppure dalla Mesopotamia è giunta ai nostri giorni una tavoletta cuneiforme di 3400 anni fa con incisa un’antica melodia: l’inno di Nikkal .
Personalmente non conosco canti folk moderni che abbiano collegamenti diretti con l'antichità. Penso che forse si possa trovare qualcosa in popoli e popolazioni in cui la tradizione è sempre sentita a livello popolare. Varie similitudini invece si trovano in strumenti musicali usati in tempi moderni ma già ad uso in antichità. Ad esempio il flauto di pan ampiamente rappresentato fin dai greci , etruschi e romani, lo si trova ancora oggi, a parte nel sud America, anche in Brianza come strumento folkloristico tradizionale, o i crotala rappresentati in mano a danzatrici e danzatori etruschi, oggi sono sempre suonati nella musica popolare di alcune zone nell'aretino, o strumenti a fiato polifonici come gli auloi, hanno una certa similitudine con le bina o le launeddas, anche se sono a tre canne, Sarde - questi sono solo alcuni esempi ma ce ne sarebbero molti altri - ma per quanto riguarda il canto non conosco similitudini certe nella musica folk recente, tradizionale se non forse in quella Sarda, oppure, allontanandosi dall'Italia alcuni canti Africani sicuramente hanno le radici nel mondo antico, ad esempio i canti Etiopi accompagnati dalla Begena, strumento molto simile alla Lira, o canti Ortodossi Copti, dove alcuni strumenti musicali sono sempre quelli della tradizione antica come il Sistro ed alcuni strumenti a fiato.

3. Archeologia Sonora Sperimentale è il tuo progetto di mostre, paesaggi sonori, audio installazioni, performance live/didattica e ricostruzione di strumenti musicali dedicato al mondo antico. Ce ne puoi parlare in dettaglio? Trovi che qui in Italia le persone siano interessate a questo genere di musiche?
Archeologia Sonora Sperimentale nasce ufficialmente circa nel 2011 con la pubblicazione del disco da me composto "Etrurian Imaginary Sounds" edito da Rai Radio Televisione Italiana. Era il lavoro che derivava da studi che avevo iniziato vari anni prima, utilizzando i primi strumenti che avevo iniziato a ricostruirmi. Da li nascono i primi Paesaggi Sonori ambientati nel Mondo Antico e le prime richieste di alcuni musei di avere musiche e strumenti espositivi. Iniziai anche a suonarli dal vivo sia da solo che in duo/trio, cambiando alcune formazioni fino ad arrivare a Rasenna Echoes.
Definirei attualmente Archeologia Sonora Sperimentale come un ampio progetto che offre vari servizi sonori, dalla ricerca scientifica alla didattica, dallo spettacolo concertistico alla costruzione di strumenti musicali che, tra l'altro, è divenuto un marchio chiamato "ArcheoLiuteria".

4. Rasenna Echoes è il progetto che ti vede coinvolto insieme a Sabina Manetti (voce) e la dottoressa Cinzia Murolo (Curatrice del Museo di Piombino, ideazione testi e revisione fonetica etrusca). Come avete ideato questo progetto? Cosa significa il titolo dell'album Vieni Oh Fufluns? Sul retro della copertina possiamo leggere il sottotitolo Volume I: Canti da Simposio. Ci saranno prossimamente nuovi album a nome Rasenna Echoes?
Nasce dall'idea sperimentale di abbinare in ambito Etrusco il canto alla musica. Si tratta infatti di uno spettacolo di canti immaginari pensati in un contesto simposiaco etrusco, con brani su vari temi, dove il dio del vino e dell'irrazionalità ha un ruolo chiave.
Pur non avendo infatti alcun documento scritto che possa permettere attualmente una ricostruzione fedele della musica degli Etruschi, né testi che ci parlino dei contenuti dei loro canti, tuttavia con questa performance si è cercato di ricreare l'atmosfera di un banchetto etrusco basandosi su rinvenimenti archeologici e le numerose immagini arrivate fino a noi. I testi sono cantati in italiano con la suggestione sonora della lingua etrusca con una scelta di parole evocative che hanno un preciso rimando al contenuto del canto. L'introduzione archeologica approfondisce i singoli temi spiegandone l'origine, contribuendo così alla divulgazione di alcuni aspetti del mondo etrusco alla luce dei recenti studi."Vieni, oh Fufluns!” è inoltre una performance in cui vengono utilizzati strumenti musicali ricostruiti seguendo l’iconografia dell’epoca, grazie ad una ricerca ormai decennale nel settore. Caratteristica unica è l'utilizzo dell’elettronica: i suoni vengono prodotti singolarmente, poi registrati e rimandati in contemporanea in loop, come a comporre un insieme di musicisti. Ne risulta una performance immersiva e carica di pathos, dal sapore antico ma con quel tocco di modernità che la rende unica nel suo genere. Lo spettatore viene a trovarsi così immerso in
un'atmosfera di festa, dalla preparazione del banchetto, all'inno a Fufluns, al canto d'amore, a quello politico.
Fufluns o Puphluns, nella religione Etrusca, era un Dio della vita vegetale, la felicità, il vino, la salute, e la crescita in tutte le cose; Fufluns è il corrispettivo etrusco del greco Dioniso, e poi del romano Bacco. Per quanto riguarda il produrre nuovi album, fisici come "Vieni oh Fufluns", per ora non lo abbiamo in programma, ma sono in elaborazione alcuni brani, col tema del lavoro, cioè che prendano ispirazione ad alcuni lavori che venivano svolti, alcuni dei quali probabilmente accompagnati da musica, come si vede in alcune rappresentazioni.

5. Cosa consiglieresti di fare alla varie sovrintendenze archeologiche per sensibilizzare il pubblico riguardo all’archeologia sonora, considerando la superficialità con la quale chi si occupa di rievocazione storica tratta la materia?
Sicuramente di indirizzarsi ad un discorso di Paesaggi Sonori immersivi all'interno dei musei per rendere più suggestivi alcuni spazi, magari anche con possibilità tecnologiche di interazione accessibili al pubblico, come ad esempio le tastiere sonore che propongo, abbinabili anche alla mostra di strumenti musicali che molto spesso fanno parte delle rappresentazioni vascolari, rilievi, statue ecc., perché la musica era molto importante per gli antichi, non solo per un discorso ludico legato al banchetto, ma spesso era parte integrante dei rituali.

6. Componi musica sperimentando fusioni tra strumenti antichi e moderni. Hai qualche preferenza di genere musicale a noi contemporaneo?
Personalmente ascolto vari generi musicali tra elettronica, ambient, etnica ma anche rock possibilmente Stoner alla Kyuss o noise alla Sonic Youth... mi piace spesso tutto ciò che è contaminato.

7. Quali testi consiglieresti da leggere a chi si sta approcciando allo studio dell’archeologia musicale?
Per conoscere alcuni reperti e raffigurazioni musicali presenti in Toscana consiglierei sicuramente la pubblicazione di Susanna Sarti e Giulio Paolucci : "Musica e Archeologia: reperti,immagini e suoni dal Mondo Antico", oppure il libro di Giovanni Comotti "La Musica nella cultura Greca e Romana".

Per approfondire, i siti web di Francesco Landucci: 


Andrea Guerriero & Lorenzo Squilloni

giovedì 14 maggio 2020

The Oxford Circle: distorsioni perdute

The Oxford Circle: distorsioni perdute

C'è stato un tempo in cui la musica rock era incentrata sulla distorsione.
Difficile pensarlo ora nell'era dell' elettro pop e della elettronica che ha visto questi generi mischiarsi, e in certi casi fagocitare, il primo, ma c'è stato un lontano periodo in cui la distorsione era il Santo Graal di ogni chitarrista rock.
Sul finire degli anni '50, con i recenti sistemi di amplificazione valvolare e l'invenzione della chitarra elettrica grazie, tra gli altri, al mitico Charlie Christian, si iniziò a capire che la distorsione poteva essere un suono da ricercare, e non solamente un'interferenza da eliminare.
Questo comportava, negli amplificatori mono canali dell'epoca, la necessità di alzare il più possibile il volume di questi sistemi, al fine appunto di far scaldare le valvole finali, ovvero i componenti che avrebbero appunto creato la distorsione del suono.
E di questo parliamo oggi, di distorsione, incontrollata, furiosa e selvaggia, così come dovrebbe essere il rock.

Prendiamo come spunto di questa discussione un gruppo come ce ne sono stati tanti negli anni '60, gli Oxford Circle.
Il nome sembrerebbe derivare da un dormitorio femminile, ma non è ricordato nella storia del rock, se non da qualche appassionato di musica psichedelica a fini enciclopedici.
Non stiamo, infatti, parlando di una pietra miliare del rock, ma appunto di un gruppo solido e credibile, una sorta di clone degli Yardbirds che ha inciso un solo disco live al leggendario Avalon Ballroom nel 1966 prima di cadere nel dimenticatoio.
In quel decennio, così pieno di formazioni, è capitato a diverse band di incidere un solo album per poi sparire per sempre, ma questo non deve ingannarci.
Spesso, infatti, anche questi piccoli album possono riservare elementi molto interessanti, come in questo caso.
Gran parte del repertorio di questi 4 ragazzi (Gary Lee Yoder, Dehner Patten, Jim Keylor, Paul Whaley) viene dal classico serbatoio blues saccheggiato dai bianchi per tutti gli ani '60 e oltre (Led Zeppelin anyone?) con alcune cover appunto degli Yardbirds e alcuni brani orginali registrati in studio peraltro trascurabili.


La componente psichedelica è in realtà marginale nella loro musica ed emerge semmai maggiormente nelle poche tracce in studio con diversi effetti dell'epoca, come ad esempio i nastri registrati all'inverso.
Non si può negare, infatti, che, come per molti gruppi del decennio, la componente live presenti gli elementi più interessanti.
Gli elementi classici sono tutti presenti, una sezione ritmica affiatata, alcune armonie vocali, l'utilizzo dell'armonica e assoli di chitarra lunghi e ben costruiti.

Ciò su cui ci vogliamo però soffermare è, come dicevo, l'utilizzo della distorsione.
Siamo nel 1966 e il mondo non ha ancora visto l'avvento delle distorsioni distruttive degli Stooges.
Certo in quell'anno abbiamo l'avvento di Hendrix con Are you experienced e il suo leggendario uso del feedback di chitarra, ma non possiamo negare che quello che ascoltiamo in quest'album live è un lavoro pioneristico o quantomeno particolarmente fruttuoso della distorsione, lanciata in maniera incontrollata e furente in faccia al pubblico.
Ed è quanto salta subito all'orecchio di questo gruppo, una energia fortemente incendiaria, potremmo dire quasi proto punk, nel lanciare un assalto sonoro al pubblico, sebbene entro i canoni della canzone anni '60.
Esempio lampante l'iniziale "Mystic  Eyes", con i suoi feedback lancinanti di chitarra cavalcanti un ritmo indiavolato sostenuto dall'iniziale ragliare della armonica a bocca.
Possiamo sentire dei notevoli primi esperimenti di switch dei pickup della chitarra, tecnica poi resa celebre diversi anni dopo da chitarristi quali Tom Morello dei Rage Against dei Machine.
Nelle tracce successive, ad esempio in "You're A Better Man than I" la chitarra regala inoltre diversi altri momenti di distorsione selvaggia accompagnata da una sezione ritmica esplosiva.
Sembra quasi che questi ragazzi avessero inziato a intravedere ciò che poi sarebbe diventato il suono chitarristico negli anni '60, con l'avvento del proto heavy metal di gruppi come i Blue Cheer e successivamente consacrato dai Black Sabbath.
Certo quanto sopra detto non è sufficiente ad includere questo gruppo nelle grandi pagine di storia della musica, né si vuole affermare che gli Oxford Circle siano stati i primi ad usare distorsioni pesanti nella loro musica.
Non stiamo affermando che questo gruppo avesse coscientemente contribuito all'utilizzo della distorsione come elemento centrale della musica che sarebbe venuta da lì in poi, ma riteniamo che sia molto interessante ascoltare queste esibizioni calate nel loro tempo.
Questo per dimostrare come nella musica gran parte delle idee che poi avrebbero rivoluzionato i vari generi non sia spuntato magicamente dal nulla, ma sia in realtà fuoriuscito da una sorta di brodo primordiale di varie sonorità poi rese famose ed iconiche da artisti che hanno fatto la storia. 
Quello che l'ascolto di un gruppo del genere ci insegna è che in certi casi le vere rivoluzioni musicali non partono da grandi palchi o da studi di registrazione milionari, ma da un insieme di piccoli gruppi che, in modi diversi, porta avanti un discorso comune attraverso diversi approcci.
Così è stato in tutti i grandi movimenti, basti pensare alla pischedelia degli anni '60, al punk negli anni '70 o alla new wave negli '80.


E chi scrive pensa che questo tipo di approccio possa essere utile ad analizzare anche il genere nella sua dimensione odierna.
Come scritto poco sopra ad oggi il rock ha vissuto numerose commistioni, in particolare con la scena elettronica che spesso ha visto la predominanza nei brani di synth e drum machine. 
Si può discutere all'infinito se il rock sia un genere morto e sepolto, o abbia ancora qualcosa da dire che  vada oltre i meri scopi commerciali, ma non si può negare come ad oggi, la distorsione sia stata quasi bandita dal mainstream del genere, e relegata nell'underground o quantomeno fortemente contaminata da elettronica e synth.
Siamo, quindi, negli ultimi anni di fronte ad una profonda trasformazione del genere, quantomeno a livello mainstream.
E penso che proprio in momenti come questi guardare al passato possa aiutarci non solo a capire, ma anche a costruire come musicisti un futuro in maniera maggiormente consapevole.
Soprattutto nelle scene indipendenti compresa quella italiana, questa riflessione sembra in parte già in atto, forse anche solo a livello inconscio.
Il nostro circuito indipendente è, infatti, così attivo e pieno di spunti interessanti proprio perché un sacco di ragazzi hanno deciso di imbracciare le chitarre e alzare i volumi, proprio come gli Oxford Circle.
Credo non sia un caso che molta della musica dei circuiti underground si rifaccia a quella anni '60 soprattutto nelle sonorità, presentando distorsioni pesanti e feedback violenti.
Non dobbiamo, infatti, dimenticare come il rock è sempre stato un genere in rivolta. In rivolta contro la musica che è venuta prima di lui, in rivolta contro il sistema sociale da cui è nato, in rivolta spesso anche contro sé stesso, basti pensare al contrasto tra il punk e i vecchi gruppi rock anni '70.
Ebbene se poniamo questa come base del genere non possiamo negare che il volume e la distorsione siano stati sempre elementi centrali nel creare l'impatto devastante che questo stile ha avuto sul mondo della musica.
Sarà, quindi, molto interessante vedere in futuro come suoni digitali e analogici,  distorsione e elettronica convivranno e quali evoluzioni questa commistione porterà.
Per adesso possiamo ascoltare la musica di oggi con uno sguardo al passato e agli eco di feedback che questo si porta con sé.

Lorenzo Vicari

mercoledì 11 marzo 2020

Blind Willie Johnson: il blues dell'essere umano

Blind Willie Johnson: il blues dell'essere umano


Il blues è da sempre tradizionalmente collegato alla più profonda tristezza, tanto da diventare in America un termine che esprime appunto la più profonda depressione.
Questo il concetto che viene costantemente richiamato alla mente appena si parla di questo genere, così profondamente radicato in una specifica area geografica e periodo storico.
A parere di chi scrive quanto sopra esposto rappresenta solamente una minima parte di quanto il blues abbia da dire attraverso i suoi interpreti.

Questo anche perché, come per tutti i grandi generi musicali, abbiamo un’incredibile quantità di declinazioni dello stesso stile.
Risulta difficile individuare anche un nucleo centrale comune a tutti gli interpreti.
Potremmo riferirci all’utilizzo della chitarra come strumento principale, ma staremmo comunque operando una limitazione, basti pensare al gran numero di blues a cappella, o accompagnati dal piano o dalle cosiddette “jug band” che utilizzavano strumenti di fortuna.
Anche a livello concettuale risulta impossibile ricondurre ad unum questo stile.
Sono presenti blues su qualsiasi argomento: la sofferenza umana, la perdita dell’amore, la violenza, l’omicidio, ma anche sull’amore, sulla  religione, sulla politica e potremmo continuare per parecchio tempo.

La verità è che, riprendendo quanto sopra accennato, in tutti gli stili musicali, sebbene utile a fini didattici, categorizzare risulta fortemente limitante.
D’altronde, come nella vita di tutti i giorni, risulta rassicurante e semplice per noi associare particolari concetti a determinati argomenti, ma dobbiamo renderci conto che la realtà che ci circonda è molto più complessa e sfumata di quanto vorremmo credere.
E questo risulta ancor più vero nella musica, un linguaggio così universale da fare spesso a meno delle parole per esprimersi.
Nel caso particolare del blues questa globalità di argomenti è facilmente spiegabile: i bluesman parlavano di qualsiasi tema in quanto ciò che cantavano esprimeva la vita nella sua totalità.
E questo era vero in quanto spesso la musica per queste persone era tutto quello che avevano, sia a livello artistico che economico.

Il blues è, infatti, nella sua forma più pura, musica degli ultimi, degli scarti di una società, come quella americana della fine dell’800, basata sulla violenza e priva di qualsiasi tutela per gli emarginati, a maggior ragione se di origine afroamericana.
Riguardo a questo dobbiamo stare attenti anche a non cadere nella facile romanticizzazione di questi artisti considerandoli persone da commiserare o vittime della società.
Sebbene in certi casi questo possa essere vero, non dobbiamo dimenticare che un discreto numero di queste persone era composto da ergastolani, con crimini violenti all’attivo, ladri o semplici truffatori, la cui vita era stata casualmente incrociata dalla musica.
Sottolineo questo aspetto in quanto centrale anche nell’opera dell’artista di cui voglio specificamente parlare in questo articolo: il leggendario Blind Willie Johnson.

Come per molti bluesman abbiamo pochissimi elementi riguardo la vita di questo artista leggendario, in gran parte recuperati da testimonianze ottenute negli anni 50 dallo storico del blues Samuel Charters.
Sappiamo con certezza che, come dice il nome, avesse perso la vista da bambino, probabilmente per dell’acido lanciato dalla compagna del padre durante una accesa lite.
Più discussa è la sua qualifica di pastore della chiesa battista, ma sicuramente Johnson aveva un profondo legame con la religione, come emerge dalle sue opere.
Sappiamo, infine, della povertà sofferta durante la grande depressione, della morte tragica e disperata per febbre malarica.

Nella testimonianze ottenute sembrerebbe che, in seguito all’incendio della casa dove abitava, l’artista sarebbe rimasto a vivere nelle macerie dell’edificio, dormendo coperto solamente da fogli di giornale. Avrebbe, quindi, sviluppato una grave malattia e l’acceso alle strutture gli sarebbe stato impedito in quanto di colore e cieco.
Queste breve premesse servono per capire il micromondo da cui proviene l’opera di Johnson, il quale, sebbene abbia suonato per tutta la vita, ci ha lasciato solamente una manciata di brani, registrati in due diverse sessioni di registrazione.
E quanto emerge dal suo songbook ribadisce in parte quanto in precedenza detto: il blues è musica della vita, che partendo da temi quotidiani e giornalieri arriva ad esprimere messaggi universali, validi per qualsiasi società  e per qualsiasi essere umano.

Le canzoni di Blind Willie Johnson parlano, infatti, di religione, drammi personali, amore, guerra e così via.
E sebbene vi sia una preponderanza di temi religiosi cari al gospel, anche la religione è vissuta da quest’artista in maniera terrena e tormentata.
Certo in un brano possiamo ascoltare che Dio ci può completare, darci la pace che cerchiamo (I know is blood can make me whole) , ma al tempo stesso ascoltiamo che in certi casi nemmeno l’amore di Dio riesce a curare le sofferenze terrene (Lord, i just can’t keep from crying sometimes).
Quella di Johnson è sì una religione che salva, ma lui stesso, probabilmente proprio per le esperienze vissute in prima persona, si rende conto che questa può in certi casi non essere sufficiente a curare le ferite che la vita può arrecarci.

E da questi traumi il bluesman ci parla direttamente nelle sue canzoni, basti pensare a pezzi come "Motherless Children" o "Trouble will soon be over", per arrivare all’indiscusso capolavoro di Johnson, "Dark Was The Night, Cold Was the Ground", non a caso presente nel disco lanciato nello spazio insieme alla sonda Voyager per mostrare ad eventuali forme di vita aliene i sentimenti umani.
Questo brano ha, infatti, una potenza incredibile, una forza espressiva mostruosa nel comunicare la sofferenza umana, la disperazione, ma anche la speranza, la necessità di amore e comunanza comune a tutto il genere umano.

La voce di Johnson è infatti potente, come quella di un predicatore, e sembra voler esporre chiaramente l'interno della sua anima a chi ascolta, ma al tempo stesso può diventare anche più delicata, richiamando il gospel, genere spesso incrociato col blues.
Ed in particolare in "Dark was the night" quello che sentiamo è un lancinante lamento, l'espressione di un'anima tormentata e abbandonata appunto sulla nuda terra.
Ad accompagnarla rimane solo la slide guitar, tecnica cara a molti bluesman, ma che troverà l'apice nella tecnica di Johnson, a tutt'oggi ancora non pareggiata da nessuno.
Lo strumento nella musica di questo artista diventa, infatti, non solo un mezzo di accompagnamento, ma una vera e propria seconda voce, che spesso e volentieri raddoppia il cantato, oppure crea melodie sue proprie andando a creare un ulteriore livello espressivo.
Chiaro esempio ne è appunto "Dark was the night". La chitarra sembra quasi piangere insieme al musicista. Qui non siamo davanti al gently weeps beatlesiano, il rapporto tra chitarrista e strumento è ben più viscerale, più fisico, ma al tempo stesso più trascendente.
Le corde vengono tirate, strusciate in maniera decisa, con una tecnica che, per mancanza di amplificazione, doveva necessariamente produrre più volume possibile al fine di farsi sentire il più lontano possibile.



Non dobbiamo, inoltre, dimenticare che spesso le registrazioni di questi artisti venivano fatti con strumenti di fortuna o in condizioni non ottimali.
Eppure la chitarra di Blind Willie Johnson mantiene ad oggi una potenza ed un fascino incredibili, in quanto perfetta e totale estensione di chi la suonava.
Nel pezzo "The soul of a man" l'artista si chiede più volte che cosa sia e di quale materia sia costituita l'anima di un uomo. Ebbene potremmo spingerci a dire che appunto, nel caso di Johnson, proprio la chitarra appare costituire almeno parte dell'anima di quest'uomo così tormentato e al tempo stesso fermo nelle sue convinzioni.
Come sopra accennato, infatti, sebbene non vi sia dubbio che la fede di quest'uomo sia ferma ed assoluta, al tempo stesso nelle sue canzoni non ha mai nascosto la debolezza del genere umano e la sua inadeguatezza di fronte al messaggio divino.
Pezzi come "Nobody's fault but mine", o "Let your light shine on me", esprimono chiaramente l'imperfezione, la  debolezza di fronte all'esistenza e la necessità di anelare a qualcosa che sia aldilà di questa esistenza.
E per Johnson, afroamericano battista degli anni '20, quel qualcosa era il Dio cristiano, nel suo amore totalizzante e salvifico.
E come avrebbe potuto essere diversamente, in un mondo come l'America degli anni '20, così spietato e incomprensibile, soprattutto per un afroamericano cieco.
Questa apparente debolezza non deve, però, essere interpretata come mancanza di consapevolezza. La voce di Blind Willie è potente, ferma e piena di decisione.
God don't never change declama in uno dei suoi pezzi più famosi, titolo tra l'altro di un recente album di cover.

Non dobbiamo, inoltre, dimenticare la canzone di protesta "If i had my way i'd tear the building down" con cui, secondo la leggenda, il cantante avrebbe ispirato uno sciopero a oltranza.
Con questi esempi chi scrive vuole far capire che il bluesman di cui stiamo parlando non era un semplice derelitto, ma un artista che era pienamente consapevole della sua potenza espressiva e dell'importanza della sua arte.
Da tutte le canzoni di Johnson traspare sempre una profonda e intima convinzione in quello che viene cantato e suonato, quasi come se lui stesso avesse compreso che quello che cantava sarebbe valso per qualsiasi delle generazioni future.

E così è. Di qualunque provenienza o generazione sia chi si accosta alla musica di questo artista immenso, e purtoppo poco conosciuto al grande pubblico, sopratutto in Italia, non può non essere percepita la profonda comprensione del dramma umano e della sua fragilità, del miracolo esistenziale costituito da una forma di vita così semplice ed al tempo stesso così complessa come è quella umana.

Ed è, a parere di chi scrive, particolarmente rincuorante pensare che, quando questo breve intermezzo nella storia dell'universo sarà scomparso, rimarrà come testimonianza della nostra esistenza questa musica così potente ed al tempo stesso così intima, così delicata e forte, così adatta ad illustrare il miracolo che è stato l'essere umano.

Lorenzo Vicari